Condannato per la bandiera rossa e l'inno sovietico

La paranoia anti-russa ha bussato anche alla mia porta: mi sono fatto due giorni in gattabuia, quattro mesi di controllo giudiziario e ora è arrivata anche la condanna.

 

Da un paio di anni, non so a voi, ma a me mi girano le palle più del solito. Tra misure restrittive anti-covid, montate naziste in tutt’Europa (non solo in Ucraina) e l’isolamento dai miei compagni di sempre — che hanno finalmente scoperto che la cosa più rebel che possono fare è stare a casa, obbedire al potere e insultare chi va in piazza — ho provato a modo mio a smuovere le cose.

 

Ho incontrato nuovi militanti, abbiamo discusso durante i cortei, abbiamo lottato assieme e sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui anche gli apparati repressivi dello stato si sarebbero interessati a me. La mia bandierona rossa dal manico in acciaio c’era in tutti i cortei, svettava in molte foto di siti internet e quotidiani e ovviamente non è passata inosservata nemmeno allo sbirrume che controlla le piazze.

 

Sabato 26 febbraio, come ogni sabato, ho sparato un po’ di musica da casa mia prima di scendere in piazza. Da un po’ di mesi, la mia playlist partiva sempre allo stesso modo, con l’inno dell’Unione Sovietica, seguito tassativamente da quello della Germania democratica, prima di prendere direzioni diverse a seconda della fase politica e dell’umore del giorno: Hasta siempre comandante! e El pueblo unido, oppure Fischia il vento e Le chant de partisans, oppure ancora Here’s to you e Addio Lugano bella o, assai spesso, Holiday in the sun dei Sex Pistols e Holiday in Cambodia dei Dead Kennedys.

 

Una decina di minuti di socialità e musica politica prima di andare a gridare la mia rabbia in piazza, in una società di individui isolati che ormai condanna qualsiasi forma di lotta sociale.

 

Quel sabato era però un po’ speciale. Due giorni prima, la Russia aveva avviato l’intervento armato in Ucraina e l’atmosfera anti-russa era pesante. Quell’inno di unità e fratellanza, forza e amore, lotta e comunismo, anche se più attuale che mai, suonava dunque inevitabilmente provocatorio.

 

E lo era! Non lo rinnego affatto, anzi lo rivendico. La provocazione, la critica e la lotta sono le mie armi da sempre e non le depongo di certo per questioni di bon ton politico o in ossequio alle disposizioni governative. Le casse del mio stereo hanno dato tutto e il porto di Nizza ha tremato.

 

Da quelle parti passavano sei militari dell’Operazione Sentinella: i soldati in mimetica coi mitra da guerra che ormai pattugliano tante città in nome della lotta al terrorismo, quelli per intenderci che per mimetizzarsi tra la gente si vestono da Rambo e poi a ogni attentato se la battono a gambe levate. Qui a Nizza ne sappiamo qualcosa.

 

Avevano appena terminato una missione di ricognizione al porto e si dirigevano verso il luogo della nuova missione. Ma, a differenza di Ulisse, non seppero resistere al canto delle sirene.

 

Attratti dalle note dell’inno sovietico (identiche a quelle dell’inno russo anche se con testi decisamente diversi), notoriamente presagio di attentati terroristici, i soldati in missione hanno deciso di fermarsi sotto la mia finestra mentre sventolavo fiero la mia bandiera e salutavo a pugno chiuso la gente in strada.

 

Secondo la versione dei militari, a quel punto, senza ragione, li avrei insultati (un po’ come Putin, all’improvviso, ha attaccato l’Ucraina). Quello che ho visto io dalla finestra è invece che i militari si sono incazzati di brutto per il mio show e hanno cominciato a chiedere ai presenti in strada e nei locali della via informazioni sul mio conto.

 

Finiti l’inno e lo spettacolo, ho preso la bandiera e sono andato alla manifestazione, la quale si è svolta senza tensioni particolari. Alla fine del corteo, poco prima che si sciogliesse, ho avvolto la mia bandiera e mi sono avviato verso casa. Appena lontano dalla vista degli altri manifestanti, mi sono però venuti incontro dieci poliziotti e, in mezzo ai bambini che festeggiavano il Carnevale, nel pieno centro della città, mi hanno perquisito, ammanettato e arrestato.

 

Mi hanno sbattuto in una cella senza finestre, aromatizzata all’urina, di due metri e mezzo per un metro e quaranta, incluso il bagno alla turca (con la leva di scarico all’esterno), e mi ci hanno lasciato per 48 ore.

 

Nelle prime 24 ore, mi hanno interrogato a più riprese: due volte il pomeriggio dell’arresto, poi nella notte, alle 4,30 del mattino, e poi di nuovo il giorno dopo, questa volta in presenza di un avvocato d’ufficio. A quel punto, vista la serietà del caso (un uomo che ascolta musica politica a casa sua!), il fermo di 24 ore è stato prorogato di altre 24 ore, nelle quali tuttavia mi hanno semplicemente lasciato riposare nella mia nuova dimora.

 

Terminate le 48 ore, mi hanno portato in tribunale. Lì, ho appreso che il secondo giorno in cella si era reso necessario per consentire alle autorità italiane di trasmettere a quelle francesi il mio dossier politico, oltre al casellario giudiziario inviato di routine nelle prime 24 ore.

 

Giuridicamente, non è chiaro cosa abbia a che fare l’oltraggio (il reato che mi è stato contestato, che in Francia prevede una pena massima di 2 anni e 15.000 euro di multa) con la politica. Concretamente, visto come sono andati i fatti, è invece a dir poco evidente.

 

Sta di fatto che il giudice ha voluto chiarimenti di natura politica, in particolare, su un episodio del 2010, privo di rilevanza penale ma secondo lui potenzialmente rilevante ai fini dell’accusa a mio carico per inquadrare meglio il mio carattere un po’ ribelle (in realtà, l’Italia quella lotta non me l’ha mai perdonata e mi riserva ancora adesso attenzioni veramente speciali). Dopodiché, mi ha rinviato a giudizio e mi ha messo sotto controllo giudiziario, con l’obbligo di firma settimanale fino al giorno del processo, dicendomi esplicitamente che avrebbe fatto in modo di fissare i miei controlli negli orari delle manifestazioni (peccato per lui che i suoi poteri non arrivino a tanto e ho continuato dunque ad andare in piazza con una nuova bandiera rossa che mi ha prontamente regalato un compagno ma che non sostituirà mai l’originale col manico in acciaio, cui ero veramente affezionato, sequestrata al momento dell’arresto).

 

Dagli atti del processo, ho appreso anche che al militare che inizialmente ha sporto denuncia se ne è aggiunto prima un secondo ad avvalorarne la versione e poi, nella seconda giornata della mia reclusione, si sono aggiunti anche gli altri quattro, costituendosi tutti e sei parte civile, con dichiarazioni identiche tra loro, che dimostrano inequivocabilmente che i militari hanno avuto accesso ai verbali dei miei interrogatori e che, peraltro, contraddicono palesemente la prima denuncia del capo-banda.

 

Inizialmente, il caporale ha denunciato che l’avrei insultato con i termini “Fils de pute, Vaffanculo”. Ma gli insulti in Francia mutano più veloci del covid. Alcune ore dopo il mio arresto, quando si presenta a deporre il secondo militare, l’insulto è già passato dal singolare al plurale: non più “Fils de pute”, ma "Allez vous faire enculer” (espressioni che difficilmente possono confondersi all’udito, anche se coperte dalla musica a tutto volume). Nei miei interrogatori in commissariato, avevo tuttavia sostenuto che gli insulti sessisti non appartengono esattamente alla cultura da cui provengo (come peraltro si evince dal mio dossier politico), ma ricalcano forse quella dei miei accusatori. Così, nella costituzione di parte civile, escono di scena i figli delle prostitute e le gang bang anali e tutti e sei i militari convergono verso una nuova versione dei fatti, in cui avrei insultato tutti loro e addirittura l’intero esercito francese. L’inossidabile “Vaffanculo” resiste invece alle mutazioni e resta nel capo di imputazione.

 

Con queste accuse, il 9 giugno, ho dunque rispolverato il vestito da matrimonio, divorzio e processi e sono andato a processo.

 

A nulla sono valsi i tre testimoni che ho prodotto (di cui due oculari, presenti al mio show), gli argomenti del mio avvocato e il mio tentativo di presentarmi come un fedele servitore dello Stato, che ha giurato fedeltà alla Costituzione due volte, durante il servizio di leva e alla presa di servizio presso il Ministero dell’Economia, sotto la direzione di un signore che si chiama Mario Draghi. La parola di sei militari è sacra. Quella di un comunista, anche se incensurato nei due paesi e al servizio dello stato da 25 anni, non conta niente. Figuriamoci poi se la parola di tre testimoni disinteressati poteva scalfire la storia raccontata da sei soggetti che hanno un interesse diretto nella mia condanna ma che portano la divisa della verità.

 

Tutto sommato, m’è andata anche bene: 500 euro di multa con la condizionale e 100 euro ciascuno agli eroi di guerra per i danni morali e psicologici che gli ho procurato.

 

E sì, perché sei soldati addestrati alla guerra, armati fino ai denti e protetti dai giubbotti antiproiettile, che si vanno spontaneamente a prendere un presunto vaffanculo a casa di uno sconosciuto che si faceva bellamente i cazzi suoi, subiscono un evidente trauma morale e meritano quindi una riparazione economica.

 

Questa è la logica dalla giudice e questo è il suo verdetto. E cosi sia.

 

Se rendo nota solo oggi questa disavventura è perché, visto l’andazzo, ho preferito aspettare la scadenza dei termini per presentare appello da parte dell’accusa (15 giorni, contro i 10 concessi alla difesa, al fine di scoraggiare l’appello del condannato).

 

Sul piano politico, ringrazio i compagni in Francia e in Italia per il supporto che mi hanno dato, proponendomi anche un avvocato politico di un certo calibro. Ma non c’erano chiaramente gli estremi per costruire un percorso di lotta su un caso così idiota. Ho quindi preferito affidarmi al mio avvocato francese di fiducia (l’unico che conosco), lo stesso che mi ha seguito nel divorzio, col quale ho condiviso una decina d’anni di allenamenti e gare di karate: almeno la sua parcella ce la potremo giocare sul tatami.

 

Quanto ai soldatini da cui tutto è partito, che dire? Normalmente, a chi mi estorce soldi, auguro sempre di spenderli in farmacia. Questa volta, voglio fare però uno strappo: il mio centone cadauno spero che finisca tutto in munizioni per i vostri mitra, così almeno oltre al dolore di un bel vaffanculo mentre passeggiate in Costa Azzurra scoprirete anche l’orrore della guerra, che è la ragione stessa della vostra esistenza.

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