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DEFAUL TOTALE — Per un’uscita anticapitalistica dalla crisi

In questo articolo, propongo una riflessione ad ampio raggio sul ruolo che può avere il ripudio del debito pubblico in Europa in questa crisi economica e finanziaria. Ben inteso, la crisi è mondiale e l’Europa non ne è certo l’epicentro. Anzi, l’Unione europea sta mostrando la sua subalternità nei rapporti imperialistici mondiali e la sua impreparazione rispetto a questa accelerazione delle contraddizioni che già viveva prima del coronavirus. 

 

Dallo scoppio della crisi del debito pubblico europeo, nel 2009, la strategia del capitale finanziario è stata quella di isolare e colpire gli stati, uno a uno, per costringerli ad accentuare lo sfruttamento dei lavoratori. Ora questa strategia è saltata. Ora è l’intero capitale finanziario europeo ad essere in crisi e il suo salvataggio richiede un forte aumento del debito pubblico di tutti gli stati europei. Molti dei quali, subito dopo i salvataggi, in un contesto di blocco produttivo senza precedenti nella storia del capitalismo, si ritroveranno, tutti assieme, con livelli di debito tecnicamente inesigibili. 

 

Questo riduce drasticamente i margini di attuazione del vecchio motto “divide et impera”. Il capitale finanziario dovrà colpire simultaneamente gli stati in crisi di solvibilità e questo è oggettivamente un punto di debolezza per il capitale. Ma la sua debolezza principale è che, in questa fase, la crisi colpisce innanzi tutto le banche e le imprese e non è affatto detto che gli stati dell’Unione possano o debbano salvarle.

 

In questo passaggio decisivo della crisi del capitale, è importante esplicitare gli interessi della classe lavoratrice che, come sempre, subisce le decisioni senza poter prendere parola. Anche se non è certo sul terreno della finanza pubblica che i lavoratori sono abituati a lottare, è proprio da qui che proviene l’attacco frontale che il capitale finanziario sta sferrando contro di loro. Per questo è necessario che, accanto alle lotte sui posti di lavoro e in ogni ambito in cui il capitale impone il suo dominio sulla società, si sviluppi anche un movimento contro il debito pubblico su basi esplicitamente anticapitalistiche.

 

Oggi, il dibattito politico è tutto incentrato sulla ricerca dello strumento tecnico migliore attraverso cui i popoli di tutt’Europa dovrebbero accollarsi il costo dei salvataggi delle banche e delle imprese in crisi, molte delle quali, peraltro, già tecnicamente fallite. Paesi Nord e paesi Sud dell’Unione europea hanno interessi divergenti in merito alle modalità attraverso cui trasferire agli stati i problemi del capitale in crisi. Economisti, politici e banchieri fanno calcoli al decimale sui diversi tassi d’interesse che i diversi strumenti finanziari pongono a carico dei diversi popoli. Dando tutti però per scontato che sia compito degli stati accollarsi i problemi del capitale privato e dovere di chi lavora pagare per i mancati profitti dei capitalisti.

 

Eppure è piuttosto ovvio che questo nuovo debito a carico dello stato, con la produzione ferma e che stenterà a ripartire, farà esplodere il rapporto debito/Pil in molti paesi dell’Unione europea. E a quel punto, senza alcun riguardo per le modalità attraverso cui sono stati concessi i nuovi prestiti e della destinazione di questi nuovi fondi, il capitale finanziario, che ora ci accingiamo a salvare, strangolerà i popoli di ogni nazione imponendo un ulteriore innalzamento nel saggio di sfruttamento.

 

L’idea che avanzo è semplice: non pagare proprio niente. Non contrarre nuovi debiti e non rimborsare quelli vecchi. Questo è il solo modo di difendere gli interessi della classe lavoratrice europea. Non ovviamente negoziando col capitale finanziario — che oggi ci sfrutta e che, per salvarsi, promette di sfruttarci di più domani — ma per far saltare l’attuale assetto politico-finanziario e avviare un processo verso il socialismo.

 

Gli effetti moltiplicativi di un simile coordinamento anticapitalista europeo sono ovvi. La crisi è sistemica e la risposta dovrebbe essere di carattere internazionale e internazionalista. Ma non mi interessano i ragionamenti politici senza copertura, le proposte irrealizzabili, giusto per fare dibattito. Non proverò quindi a sviluppare nei dettagli cosa accadrebbe nell’ipotesi, alquanto improbabile, di un ripudio del debito simultaneo e coordinato, da parte di un movimento internazionalista forte e consapevole. Sarebbe come costruire una strategia di lotta basandola sull’ipotesi di aver già vinto. 

 

Mi concentro invece sull’Italia. Non perché in questo paese l’anticapitalismo sia politicamente più avanzato. Ma perché — per quanto possa apparire in contrasto con il bombardamento mediatico — l’Italia è il paese con i “migliori” conti pubblici dell’Unione europea e, in caso di conflitto aperto col mondo bancario, è meno esposta alle rappresaglie finanziarie che colpiscono chi si ribella al capitale. Senza aspettare la maturazione del movimento internazionale, l’anticapitalismo italiano può quindi assumere un ruolo trainante nella trasformazione istituzionale dell’Europa. Anche perché, se nei salotti della finanza l’Italia è spesso trattata dall’alto, una svolta economica nel nostro paese cambierebbe di fatto i rapporti capitale/lavoro nell’intero continente.

 

La mia tesi è che in Italia ci siano le condizioni economiche e finanziarie per ripudiare in toto il debito, qui e ora. La dimostro dati alla mano, analizzando i conti pubblici italiani e sviluppando alcune considerazioni sugli equilibri internazionali in cui una simile scelta andrebbe a collocarsi. La principale obiezione, cui non provo nemmeno a rispondere per via della mia incompetenza in materia, riguarda un’eventuale reazione militare. Ma se è veramente questo il punto debole della mia proposta, questo significa che la mia analisi funziona e che merita di essere discussa.

 

I conti dello stato

 

Per capire come si forma il debito pubblico e cosa succede se lo stato smette di pagarlo, dobbiamo considerare il bilancio dello stato e il ruolo della spesa per interessi derivante dal debito pregresso (dati Eurostat).

 

Nel 2019, l’Italia ha speso 60,3 miliardi di euro per il pagamento degli interessi, pari al 3,4% del Pil, guadagnandosi la maglia rosa sia in termini assoluti, sia in termini relativi anche tra i cosiddetti Piigs, che sono appunto i paesi più esposti sul fronte del debito pubblico. Per la verità, le stime del Ministero dell’Economia e delle finanze indicano una spesa maggiore, pari al 3,6% del Pil. Ma appunto si tratta di stime ancora soggette a revisione. Il dato certo più recente è quello del 2018, in cui la spesa per interessi è stata di 71,8 miliardi pari al 4,1% del Pil.

 

Anche gli altri quattro Pigs hanno comunque sostenuto spese per l’onere del debito di tutto rispetto: il 3,0% del Pil nel caso del Portogallo, il 2,9% in quello della Grecia, il 2,3% per la Spagna e l’1,2% per l’Irlanda (in quest’ultimo caso, si deve tenere presente che, come gli stessi uffici statistici irlandesi riconoscono, circa un terzo del Pil è costituito dalle attività di Google, Facebook, Microsoft e Apple, le quali fanno figurare il grosso delle loro attività in questo paese per semplici ragioni di elusione fiscale).

 

In termini procapite, la spesa annua per interessi degli italiani è di 998 euro, seguita dall’Irlanda con 918 euro a persona e poi Portogallo, Spagna e Grecia con 621, 608 e 514 euro procapite, rispettivamente. Va detto peraltro che i paesi con le finanze statali più solide non stanno veramente meglio: francesi, tedeschi, olandesi e austriaci, infatti, pur avendo un rapporto spesa per interessi / Pil più basso (1,4%, 0,8%, 0,8% e 1,4% rispettivamente), spendono ogni anno rispettivamente 521, 333, 358 e 640 euro a testa, per servire il debito dei loro stati.

 

            DEBITO PUBBLICO E SPESA PER INTERESSI IN EUROPA (2019)

 

Debito   (miliardi euro)

Debito/Pil        (in percentuale)

Interessi        (miliardi euro)

Interessi/Pil 

(in percentuale)

Interessi pro capite (euro)

Italia

2.410

134,8

60,3

3,4

998

Spagna

1.189

95,5

28,5

2,3

608

Portogallo

250

117,7

6,4

3,0

621

Irlanda

204

58,8

4,5

1,2

918

Grecia

331

176,6

5,5

2,9

514

Francia

2.380

98,4

34,9

1,4

521

Germania

2.053

59,8

27,6

0,8

333

Olanda 

395

48,6

6,2

0,8

358

Austria

280

70,2

5,7

1,4

640

 

Ma restiamo in Italia. Cosa significano questi dati? Che, mediamente, ognuno di noi — dal neonato al vecchietto, dal riccone al poveraccio — regala ogni anno circa 1.000 euro alla banca di turno che ha in portafoglio i titoli del debito pubblico italiano. E se un giorno questa sanguisuga entra in crisi, senza nemmeno essere interpellati, ci sfilano di tasca altri soldi per salvarla. Secondo la vulgata economica, se oggi dobbiamo pagare è perché ieri consumavamo “a buffo”. Perciò, zitti e muti: come dicono gli americani, “there ain’t no such thing as a free lunch” (non esistono pranzi gratis), quello che mangi prima o poi lo paghi. 

 

Eppure, sono ormai decenni, non anni, che paghiamo per dei pranzetti costosi di cui non ci ricordiamo nemmeno. Dal 1992, l’Italia ha infatti un surplus di “bilancio primario” (definito come differenza tra entrate fiscali e spesa pubblica propriamente detta, quella che non considera la spesa per interessi): gli attivi registrati annualmente sono di circa 2-3 punti percentuali rispetto al Pil, con un picco del 6,6% nel 1997 e due sole passività, nel 2009 e 2010, dello 0,7% e 0,1% rispettivamente, frutto diretto degli esborsi pubblici per salvare le banche e le imprese colpite dalla crisi. 

 

Nonostante gli attivi nel saldo primario, in tutti questi anni, il bilancio complessivo dello stato è rimasto però costantemente in deficit, poiché tali attivi non sono stati sufficienti a coprire per intero la spesa per interessi. Il risultato è che il debito pubblico è esploso: da 757 miliardi (il 99% del Pil) nel 1991, a 2.410 miliardi (il 134,8% del Pil) nel 2019, il più grande d’Europa, seguito da quello della Francia (pari a 2.380 miliardi, equivalenti al 98,4% dl Pil) e della Germania (2.053 miliardi, il 59,8% del Pil).

 

Nel 2019, i 60,3 miliardi di euro di spesa per interessi sono stati pagati prelevando 31,0 miliardi di euro (l’1,7% del Pil) direttamente dalle nostre tasche, dal bilancio primario, dall’eccesso di tassazione rispetto alla spesa pubblica propriamente detta; gli altri 29,3 miliardi (l’1,6% del Pil) lo stato se li è fatti prestare.

 

Ovviamente, di questi nuovi prestiti lo stato non ha visto nemmeno un euro. Si è trattato infatti di una semplice partita di giro sui registri contabili dello stato e delle banche creditrici: il vecchio debito si è estinto e un nuovo debito si è acceso o, per dirla in termini più concreti, lo stato ha pagato il titolo del debito in scadenza emettendone un altro che andrà rimborsato in futuro. In queste operazioni, cambia la struttura dei debiti (dello stato) e dei crediti (delle banche) ma soldi non se ne muovono.

 

Diverso è il caso del pagamento degli interessi attraverso il surplus primario. Questi soldi infatti si muovono eccome e viaggiano ogni anno dalle casse dello stato a quelle delle banche. Quei 31 miliardi di surplus primario — che lo stato ci ha preso col prelievo fiscale senza restituirceli attraverso la spesa pubblica — sono finiti veramente nelle casse delle banche. Anche se il debito dello stato e il credito delle banche sono aumentati, il flusso netto di denaro è andato dallo stato alle banche, non dalle banche allo stato.

 

Quando si parla di aiuti, prestiti, con o senza condizioni, e piani d’emergenza che si vorrebbero fornire agli stati, questo dato dovrebbe sempre essere chiaro: di quegli aiuti, di quei prestiti, di quei piani d’emergenza, lo stato non vede un euro. Gli vengono concessi solo per rimborsare i debiti pregressi. E se in tempi di crisi tutti ci tengono così tanto a concedere prestiti allo stato è perché se lo stato non rimborsa i titoli del debito quando arrivano a scadenza sono le banche creditrici che devono iscrivere a bilancio una perdita. E siccome già se la passano male questo sarebbe per loro il colpo di grazia.

 

Quindi, per orientarci da soli, la regola è semplice: pur con qualche approssimazione, per capire se nell’anno X è la banca che dà soldi allo stato o lo stato che li dà alla banca, dobbiamo guardare al bilancio primario. Scopriamo così che l’ultimo euro o, più correttamente, l’ultima lira uscita da una banca per finanziare la spesa pubblica propriamente detta risale al 1991. Dal 1992 in poi (con le due eccezioni del 2009 e del 2010, causate proprio dagli esborsi straordinari a favore delle banche), al contrario, il bilancio primario è in attivo e il flusso monetario va dallo stato alle banche. 

 

Se invece vogliamo capire se l’indebitamento dello stato nei confronti delle banche è in crescita o in diminuzione dobbiamo guardare al bilancio complessivo. E qui è evidente che la posizione debitoria dello stato ha proseguito la sua cavalcata, indipendentemente dall’inversione nei flussi monetari intervenuta nel 1992.

 

È però solo guardando simultaneamente ai due bilanci che riusciamo a cogliere pienamente come l’Italia rappresenti la materializzazione del sogno di ogni banchiere: ogni anno la banca incassa i fondi derivanti dal surplus primario e vede anche accrescere il suo credito sullo stato, grazie al deficit complessivo di quest’ultimo. Questo è il miracolo di un paese con surplus primari e deficit complessivi. Che che ne dicano i monetaristi, nel capitalismo, i pranzi gratis esistono eccome. Ma sono riservati al capitale.

 

Default unilaterale e default controllato

 

La semplice esposizione di quanto accade in Italia da quasi trenta anni dimostra che l’eventuale ripudio del debito non produce affatto il cataclisma annunciato da governanti e banchieri. La tiritera che se lo stato fa default poi le banche non gli presteranno più i soldi può far paura a tanti stati, ma non all’Italia, che il rigore di bilancio lo applica dal giorno della firma del Trattato di Maastricht.

 

Dal 1992, l’unico rapporto che lo stato ha avuto con le banche è stato per consegnare loro i soldi del surplus primario. Pertanto, se l’Italia avesse ripudiato il debito, le banche non avrebbero potuto attuare nessuna ritorsione, nessuno stop dei finanziamenti. Semplicemente, perché, da allora, lo stato italiano non ha chiesto loro nemmeno una lira ma è stato lui a dare loro i soldi.

 

E se vogliamo dirla tutta, l’unica vera conseguenza finanziaria di un default sarebbe stata la costruzione di una solida posizione creditrice dello stato. Infatti, quei soldi che ogni anno lo stato ha versato alle banche per il pagamento degli interessi — facendosi sgridare perché erano pochi — figurerebbero oggi come prestiti che lo stato ha fatto alle banche. Grazie al default, oggi lo stato incasserebbe i tassi di interesse, invece di pagarli.

 

Il debito è un cappio al collo del debitore. Allentando questo cappio, il debitore riprende a respirare. Da questo punto di vista — è banale — il default, totale o parziale, fa sempre bene al debitore, almeno nell’immediato. Ma il vero problema — l’abbiamo visto con la Grecia nel 2012 — riguarda i rapporti di forza tra creditori e debitore al momento del default. Oggi, il capitale è in crisi e se non viene salvato fallisce. Inoltre, come abbiamo appena visto, l’Italia dal punto di vista della finanza pubblica non è affatto come la Grecia del 2012. I rapporti di forza sono favorevoli allo stato. Domani, però, quando gli stati avranno salvato le banche e le imprese, saranno tutti ricattabili, saranno tutti come la Grecia nel suo peggiore momento.

 

Quando si parla di default, la domanda che deve porsi il debitore, mentre riprende aria col cappio ancora al collo, è questa: è stato veramente lui, con le sue braccia, ad allentare il cappio o quella boccata d’aria gli è stata concessa solo perché di fatto il pagamento integrale era tecnicamente impossibile ed era questo l’unico modo per proseguire e intensificare lo sfruttamento, sotto la minaccia che il cappio si stringa di nuovo? Senza essere economisti o strateghi politici, la risposta ce la fornisce il boia stesso: se è veramente arrabbiato, vale la prima; se invece è stato lui che, seppure strillando, ha allentato il nodo, è perché conta sulla seconda. Nel caso della Grecia, ad esempio, per capire gli esiti del default controllato e concordato, basta vedere chi ne ha scritto le condizioni e se non basta lo sguardo sodisfatto del boia, è impossibile non sentire le urla di rabbia, fame e dolore del popolo greco.

 

Oggi è Mario Draghi in persona, da sempre l’uomo del rigore di bilancio e dell’austerity, che ci dice di indebitarci di più. E anche se gli economisti della sinistra borghese sono convinti che questo dimostra che finalmente Super Mario li ha ascoltati, la verità è che Draghi continua semplicemente a fare coerentemente il suo lavoro: quello del boia della finanza che apre e stringe il cappio attorno al collo dei lavoratori. E gli economisti della sinistra borghese continuano coerentemente a non capire niente di economia: prima, facevano a gara a chi la sparava più grossa sull’entità del nuovo debito necessario a rilanciare l’economia (credendo che l’affermazione del loro amato Keynes secondo cui “nel lungo periodo saremo tutti morti” fosse solo una battuta da citare nei convegni accademici); e ora, che l’economia è ferma (perché il lungo periodo di Keynes è finalmente arrivato) e le banche hanno disperatamente bisogno dei soldi dello stato, si fanno superare a sinistra (o, meglio, da quella che secondo loro è la sinistra) proprio dall’uomo di destra che hanno sempre combattuto.

 

Nessun economista solleva dubbi sulla logica per cui i lavoratori dovrebbero pagare il conto del capitale in crisi. Il gioco a chi è più di sinistra si fa sullo strumento tecnico più idoneo a strangolare la classe lavoratrice europea: un bel cappio unico o tanti singoli cappi, collegati tra di loro, ma che si stringono a velocità leggermente diverse. A questo si riduce il dibattito sulla mutualizzazione del debito tra gli stati dell’Unione europea. E domani, quando gli stati si saranno accollati i debiti del capitale, il coro unificato di economisti keynesiani e liberisti ci spiegherà che dobbiamo tagliare il personale medico e i posti in terapia intensiva, assieme ai diritti dei lavoratori di ogni settore e i servizi ai cittadini di ogni nazione perché è la crisi da coronavirus che ce lo impone.

 

Le banche — che oggi dovrebbero solo fallire e levarsi di torno — subito dopo essere state salvate dagli stati, riprenderanno a minacciare gli stati stessi. E a quel punto gli economisti della sinistra borghese e i boia della finanza internazionale ritroveranno l’accordo e ci presenteranno i loro piani di default controllato, secondo la sola logica che conoscono, quella del capitale: quella della ricerca della taglia ideale del cappio da mantenere attorno al collo della classe lavoratrice, per incatenare i lavoratori di tutt’Europa al capitale internazionale per i prossimi decenni.

 

I lavoratori hanno pochi calcoli da fare. Sfilarsi il cappio dal collo una volta per tutte non è semplicemente il loro interesse materiale: è ormai una condizione di sopravvivenza. Perché se non ci riescono, con la crisi che incalza, conviene che si abituino a respirare solo per farsi sfruttare. Banchieri e politici possono dilettarsi nei più complessi calcoli di quanto sfruttamento ci vuole per appagare le esigenze presenti e future del capitale. Possono anche litigare, finché non giungono a stime convergenti. Ma non sarà mai in nome della classe lavoratrice. Perché chi lavora e produce il valore che la società si spartisce non è mai in debito. Per i lavoratori, la soluzione è una sola: il default totale.

 

Default e socialismo

 

Scrollarsi di dosso il peso del debito — con lo stop immediato al pagamento degli interessi e ai rimborsi dei titoli che arrivano via via in scadenza — non segna la fine dello sfruttamento capitalistico. Alleggerisce semplicemente il peso della crisi sulla classe lavoratrice. Non è il socialismo, non è la rivoluzione: il modo di produrre rimane lo stesso, il lavoro salariato resta, così come la generale dipendenza del lavoro dal capitale pubblico e privato. Ma il profitto ne esce ridimensionato, lo sfruttamento si riduce, la politica recupera un po’ di autonomia e il capitale finanziario smette di essere il soggetto che detta legge ai governi e calpesta i diritti. Per una volta, a far tremare i mercati non saranno le mani forti che li controllano ma l’avanzamento reale del loro nemico di classe: il lavoro.

 

Un secolo e mezzo fa, Marx caratterizzava il lavoratore di questo modo di produzione come “libero” in un duplice senso: “che disponga della propria forza lavorativa come propria merce, nella sua qualità di libera persona, e che, d’altra parte, non abbia da vendere altre merci, che sia privo ed esente, libero di tutte le cose necessarie per la realizzazione della sua forza-lavoro” (Il Capitale, vol. 1, cap. 4). Oggi, dopo decenni di lotte e di conquiste, la crisi ha riportato la libertà giuridica di vendersi ai tempi di Marx, con il ripristino del cottimo e la cancellazione dei diritti. I lavoratori tuttavia non nascono più privi di tutto. Anche loro hanno finalmente qualcosa: un debito.

 

Se si vuole veramente dare dignità al lavoro, questo fardello ereditato alla nascita deve essere ripudiato. Credere di farlo tranquillizzando i mercati non ha senso. La quotazione di borsa di un’azienda misura il valore atteso dei suoi profitti futuri. Una strategia efficace e credibile di difesa del lavoro deve ridurre questi profitti attesi, non garantirli. Le borse devono crollare. Le banche con i titoli del debito in portafogli devono fallire. Le istituzioni monetarie e finanziarie e i fondi salva-stati devono tremare. Altrimenti, vuol dire che l’avanzata del lavoro è solo formale. Senza ambiguità, il debito deve essere ripudiato in rottura col mondo bancario, non in accordo con esso.

 

Il default della Grecia del 2012, parziale e concordato, si è dimostrato perfettamente inutile sul piano finanziario, tanto che nel giro di pochi anni le finanze pubbliche greche erano di nuovo in crisi. Intanto però sui lavoratori si è abbattuta la scure del capitale, impugnata a due mani dalle banche e dallo stato. Così, mentre i lavoratori perdevano salario, diritti e il posto di lavoro stesso, le banche francesi e quelle tedesche — le più esposte nei confronti del debito greco — riprendevano a macinare utili e i mercati europei riprendevano a galoppare, scontando già i profitti futuri che questo nuovo equilibrio nei rapporti di classe avrebbe comportato. L’Euro Stoxx 50 (l’indice delle borse dell’area dell’euro) è passato da 2.000 punti, nel 2012, a 3.800 punti nel febbraio 2020, prima che la crisi da coronavirus lo riportasse verso quota 3.000: il capitalista che aveva 2 milioni o 2 miliardi, è arrivato così a detenerne 3,8 — giusto per far capire anche ai lavoratori cosa intendono i capitalisti quando dicono che stiamo tutti sulla stessa barca. Perché, se ancora non è chiaro, i mercati apprezzano una sola cosa: lo sfruttamento del lavoro. E ora che il povero capitalista ha ridotto parzialmente i suoi guadagni tutti si mobilitano per dargli una mano.

 

Il problema del default non riguarda affatto l’eventuale caos finanziario che politici e banchieri dicono tanto di temere. Il problema riguarda invece chi vince e chi perde. Continuando a pagare — o cancellando la parte di debito che presto diventerà inesigibile, al fine di agevolare il pagamento della parte rimanente — vincono i banchieri. Se si vogliono veramente far vincere i lavoratori, è inutile raccontare favole per piccolo borghesi: il capitale deve iscrivere a bilancio la sua sconfitta. Lo stato non deve accollarsi un bel niente. Al contrario, deve proteggere i suoi cittadini adottando tutte le misure necessarie per assumere il controllo del processo produttivo, quando il capitale privato è incapace di farlo, da una posizione di forza che lo sottragga al ricatto del capitale finanziario. 

 

Nessuno si illude che la costruzione del socialismo sia un processo automatico e lineare, cui il capitale assisterà passivamente. Ma almeno questo primo passo è facile e non richiede compromessi, né trattative: Spettabili creditori, vi informiamo che quei soldi che i governi borghesi hanno promesso di estorcere ai lavoratori per darli a voi non li avrete. Data e firma. Così si ripudia il debito. Così agisce un ministro dell’economia e delle finanze che risponde agli interessi del popolo invece che a quelli dei banchieri.

 

Default, lotta di classe e rappresaglie capitalistiche

 

Con il default totale e incondizionato — accompagnato o, meglio, preceduto dal blocco dei movimenti di capitale — le banche falliranno e con loro molte imprese. Falliranno in particolare tutte le banche e le imprese che oggi credono di salvarsi con gli aiuti dello stato e anche quelle che da decenni si tengono a galla semplicemente investendo sui titoli di stato. Molti lavoratori perderanno il lavoro e la crisi si aggraverà. Ma allo stesso tempo, si libereranno risorse pubbliche con cui ripartire. Quel saldo primario, che oggi lo stato versa al capitale bancario, potrà essere utilizzato per il popolo. E se una fabbrica chiude perché il capitalista non fa abbastanza profitti o la banca non gli presta più i soldi, lo stato può riaprirla, può espropriarla, può assegnarla ai lavoratori: perché, nel capitalismo, l’unica cosa che non manca sono i lavoratori che vogliono lavorare.

 

I lavoratori hanno un ruolo cruciale da giocare in questo processo. Sono loro che devono bloccare la produzione, occupare le fabbriche e prendere possesso dei mezzi di produzione. Sono loro che devono riattivare la produzione nei settori che producono i beni e servizi essenziali alla popolazione. Non quelli stabiliti dai decreti del governo sotto la pressione dei gruppi capitalistici in crisi. Bensì quelli che soddisfano i bisogni di un popolo affamato e arrabbiato. Sono i lavoratori e la rabbia popolare che devono costringere le imprese al fallimento. Perché lo stato borghese da solo non lo farà mai. È la classe lavoratrice nel suo insieme che deve opporsi ai licenziamenti di molti e agli straordinari per pochi. Perché, se non si lotta, dalla crisi non si esce lavorando meno e lavorando tutti — come chiedono i lavoratori nelle assemblee auto-convocate — ma lavorando di più e coi licenziamenti. Lo sanno anche gli uomini e le donne delle periferie che dopo aver svaligiato i supermercati, non c’è più niente di cui appropriarsi se non si assume il controllo dei settori produttivi da cui dipende la nostra vita.

 

Questo percorso di appropriazione diretta deve mettere alle corde le forze politiche, costringerle a prendere provvedimenti in difesa del popolo che rappresentano. Si deve impedire ogni regalia al capitale e si devono avviare i primi passi organizzativi per una svolta nel modo di produzione. Sul fronte finanziario, il sistema bancario in crisi deve essere spazzato via dal monopolio statale del credito. Questo ovviamente non cancella l’interesse come categoria economica del capitalismo. Lo trasferisce semplicemente allo stato. Il che non è poco: i guadagni derivanti dal credito invece di andare alle oligarchie finanziarie diventano del popolo.

 

Non ha senso entrare qui nei dettagli di questi processi. Il problema è semmai formare un fronte unito di liberazione della società dal capitale che questi percorsi sappia svilupparli. Che nel panorama politico attuale non ci siano forze politiche interessate ad un simile percorso è evidente. Ma il soggetto sociale pronto a lottare per la sua sopravvivenza è lì, ha già perso tutto e, nella ripresa della lotta di classe, non ha da perdere che le sue catene. Chiede solo un progetto politico credibile in cui far convergere la sua rabbia. Le forze politiche, vecchie e nuove, dovranno farci i conti.

 

Vediamo ora cosa accadrà sul fronte opposto. Il ripudio del debito in ottica antagonistica scatenerà infatti dure reazioni economiche e politiche. Senza alcuna pretesa di esaurire la questione, mi limito ad alcune considerazioni principali.

 

In piena fase imperialistica, i monopoli industriali e quelli bancari formano un unico soggetto. Non potendo vendicarsi su un piano strettamente finanziario, le ritorsioni si indirizzeranno sull’economia reale, con probabili sanzioni, embargo e isolamento politico da parte di alcuni paesi europei e degli Stati uniti. Ma soprattutto la reazione europea è tutt’altro che scontata. Se le oligarchie finanziare andranno su tutte le furie, le forze popolari ne trarranno forza e questo aumenterà la conflittualità di classe a livello internazionale. Inoltre, l’Unione europea forma un mercato altamente integrato in cui l’import-export tra i paesi membri costituisce il grosso dei rapporti commerciali di ogni paese e nessuno stato può realmente permettersi di fare l’embargo alla terza economia più grande dell’Unione.

 

E poi ci sono altre potenze economiche che, anche solo per ragioni di opportunismo economico, vedranno con interesse questo processo, a cominciare dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), più che mai a caccia di partner da sottrarre all’area di influenza dell’euro e del dollaro. Se poi la svolta prenderà veramente una direzione socialista, arriverà anche la solidarietà politica, più autentica e sentita, dei paesi che già hanno intrapreso questo percorso, dall’America latina all’Asia. L’energia e tante altre cose utili alla produzione, insomma, non scarseggeranno, né mancheranno i possibili sbocchi per il made in Italy.

 

Lo stesso capitale Usa-Ue, subito dopo le ritorsioni a scopo intimidatorio, dovrà rifare i suoi conti. Perché forzare troppo nella rappresaglia contro un paese che produce 1.788 miliardi di euro l’anno (a tanto ammonta il Pil del 2019) non funziona e non conviene. L’embargo funziona contro Cuba (la quale riesce comunque a mandare gli aiuti ai popoli bisognosi anche se i loro stati la boicottano), non contro l’ottava potenza economica mondiale. 

 

L’embargo non conviene a nessuno: perdere la rendita da interesse proveniente dal debito pubblico è un conto, perdere completamente le occasioni di commercio con un paese tecnologicamente avanzato e specializzato è un’altra cosa. Quando la posta è grande, le prime a violare l’embargo sono le multinazionali. Perché vendendo in Italia guadagnano e perché l’export italiano non è fatto solo di moda e cucina ma anche di aerospazio, alta tecnologia e settori che servono alle imprese straniere e che piacciono ai consumatori di mezzo mondo. 

 

L’eventuale via della contrapposizione frontale non farà altro che accelerare la transizione e innescare la bomba socialista dell’espropriazione, che è cosa diversa dalla nazionalizzazione delle imprese in crisi: nessun indennizzo, nessuna socializzazione delle perdite, ma l’acquisizione da parte dello stato delle aziende poco produttive secondo i parametri del capitale per riconvertirle alla soddisfazione dei bisogni del popolo. Per questo, come primo provvedimento, si devono impedire le fughe di capitali — sia finanziari, sia materiali — l’unica scelta razionale di un capitalista che teme il socialismo.

 

E se infine il capitale mondiale troverà veramente la forza di unirsi contro di noi, per punire le nostre tendenze socialiste, vorrà dire che Finmeccanica, invece di produrre tecnologia di guerra per gli Stati uniti e per la Nato, la riconvertiremo in una fabbrica di giocattoli per i nostri bambini e le mozzarelle e i pomodori, invece di esportarli, ce li mangeremo. Sarà la migliore caprese del mondo. Perché a mangiarla saranno i lavoratori che l’hanno prodotta, senza cappi al collo e senza sfruttamento.

 

Anticapitalismo e riformismo borghese

 

La sostenibilità finanziaria del default totale e i possibili percorsi economici che ho tratteggiato non dimostrano ovviamente la fattibilità anche politica di questa via. Il problema politico — che ho solo sfiorato — è che nei salotti istituzionali, l’anticapitalismo non esiste e domina invece la concezione borghese. Rompere con le regole del capitale non è nemmeno contemplato. Moderati e radicali si differenziano solo per le modalità attraverso cui scaricare sui lavoratori le contraddizioni del capitale.

 

Da destra a sinistra, non c’è voce della spesa pubblica che non sia costantemente rimessa in discussione: dal lavoro alle pensioni, dalla sanità all’istruzione, dalla casa ai trasporti, da trent’anni, si parla solo di tagli. L’unica voce che non si può toccare — quella per cui tutte le altre devono essere tagliate — è quella per gli interessi a beneficio delle banche. Questa spesa è sacra, è il tributo al Dio profitto che, crisi o non crisi, destra o sinistra, va sempre pagato.

 

Ormai è convinzione diffusa che chiedere maggiori deficit pubblici sia di sinistra. Ed è per questo che nessuno fiata quando lo stato ogni anno ci sfila di tasca i soldi del surplus primario. Col risultato che i lavoratori oltre a subire lo sfruttamento diretto da parte del capitale devono consegnare al capitale parte del loro lavoro anche per il tramite dello stato. È chiaro che con questa premessa qualsiasi dichiarazione in difesa della classe lavoratrice non può che essere solo formale. Eppure è altrettanto chiaro che non è possibile lottare contro il capitale se non si è disposti a violare le sue leggi e se non si è disposti a rivedere l’assoggettamento stesso dello stato al capitale.

 

Partire dal ripudio del debito pubblico significa dare voce alla rabbia popolare, ingenua ma genuina, contro le banche e i signori della finanza, i quali, anche quando l’economia si ferma, pretendono sempre la loro fetta. Smettere di pagare gli interessi al capitale significa mettere in dubbio il diritto di chi ha soldi di farne di più, significa violare il fondamento stesso del capitalismo: il profitto derivante da proprietà. E significa anche cominciare a parlare più in generale della sacralità della proprietà, quando quest’ultima è tutta concentrata in poche mani e chi lavora possiede solo debiti.

 

Attaccare l’interesse delle banche costituisce un modo concreto di arginare l’avanzata del capitale, colpendolo al fianco che in questa fase lascia scoperto: quello finanziario. Banche, padroni e istituzioni internazionali vorrebbero ricattare gli stati, ma sono loro che stanno in crisi. Perché tutte le innovazioni istituzionali — fondi salva stati, prestiti mutualizzati, politiche monetarie non convenzionali — lo sappiamo tutti, servono a salvare le banche e le imprese, non i lavoratori, cui si chiedono sempre nuovi sacrifici. Combattere l’interesse è facile, basta un colpo di penna. I creditori si arrabbieranno. Ma il sostegno popolare è garantito.

 

Insomma, le condizioni materiali per una svolta anticapitalista ci sono e il capitale finanziario sta tentando in tutti i modi di risolvere le sue contraddizioni scaricandole sui lavoratori. In quest’articolo, ho mostrato quale potrebbe essere il ruolo di uno stato che rifiuta di agire per conto del capitale e che agisce invece nell’interesse della classe lavoratrice. 

 

La creazione di un soggetto politico collettivo che sappia sviluppare queste condizioni oggettive e indirizzarle in senso rivoluzionario non è ovviamente compito di un singolo individuo, né è una questione che si possa affrontare su basi puramente tecniche. Chiudo quindi con un’esortazione politica: gli appuntamenti con la storia non si possono mancare a causa di contrasti soggettivi e incapacità organizzative!

 

https://www.lordinenuovo.it/2020/04/30/default-totale-per-unuscita-anticapitalista-dalla-crisi-1-2/

 

https://www.pclavoratori.it/files/index.php?obj=SEZ&oid=101

 

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-default_totale__per_unuscita_anticapitalistica_dalla_crisi/82_34698/

 

http://www.antiper.org/2020/05/05/palermo-default-totale/

 

https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/17672-giulio-palermo-default-totale-per-un-uscita-anticapitalistica-dalla-crisi.html

 

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